Roma, 16 ott. (Adnkronos/Labitalia) - Nato negli Stati Uniti durante la pandemia, il fenomeno delle grandi dimissioni - che potremmo descrivere come un aumento quasi esponenziale di figure professionali che hanno scelto di lasciare il proprio posto di lavoro - è, con qualche mese di ritardo, arrivato anche in Italia già da un anno e mezzo. Nel nostro paese, infatti, nel secondo trimestre del 2021 il boom di dimissioni è stato dell’85%, mentre nel terzo la media è stata del 26,7%. Numeri impressionanti che meritano di essere analizzati. “Trovare la spiegazione a questi dati - precisa Joelle Gallesi, managing director di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale qualificato - non è così semplice. La spinta verso il nuovo potrebbe essere stata la risposta ai lunghi mesi in lockdown oppure semplicemente un cambiamento ormai inarrestabile della percezione del proprio lavoro, dei tempi e degli spazi dell’ufficio o, magari, al naturale e umano desiderio del nuovo, che si è instillato in chi non ha avuto modo di emergere dai propri spazi domestici". "C’è, tuttavia, un’altra faccia di questo fenomeno - avverte - che è altrettanto importante e che non possiamo ignorare: molti di coloro che hanno cambiato lavoro, già nei primi tre o sei mesi dall’inizio della nuova avventura professionale, rivalutano la scelta e sarebbero già pronti a cambiare nuovamente perché si rendono conti di aver preso questa decisione sull’onda dell’emotività, invece che sulla base di un vero progetto di carriera”. Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale altamente qualificato, ha condotto un sondaggio, tra circa 1.000 candidati, per indagare il livello di soddisfazione delle persone che, negli ultimi sei-dodici mesi, hanno scelto di intraprendere un nuovo percorso professionale. Il 38% si ritiene molto soddisfatto del cambio, il 30% abbastanza, il 17% poco e il 15% per nulla. La situazione di instabilità generata dall’emergenza sanitaria ha modificato, almeno per il 53% dei rispondenti, bisogni e necessità e ne ha influenzato la scelta. Quali sono le motivazioni che hanno incentivato il cambiamento? Anche in questo caso il quadro è molto chiaro: il 40% dei profili si è mosso per la possibilità di crescita professionale ed economica, il 23% per la mission e i valori aziendali della nuova realtà e l’11% per l’opportunità di formazione. “Questi dati - aggiunge Joelle Gallesi - dimostrano con ancora maggiore chiarezza quanto gli ultimi anni abbiano cambiato radicalmente il nostro modo di vivere il lavoro e ci mostra quanto le persone, anche in un periodo di grande incertezza come quello segnato dall’emergenza sanitaria, siano state e siano tuttora propense al cambiamento per cercare aziende che siano più vicine ai propri valori o alle proprie necessità”. Le grandi dimissioni al contrario: alcuni candidati tornerebbero a lavorare nella vecchia azienda. Il 29% degli intervistati sarebbe disposto, potendo, a tornare nell’azienda che ha lasciato. Si tratta principalmente di figure senior che hanno maturato almeno 7 anni di esperienza. L’impressione generale è che molti cambiamenti siano stati fatti più sull’onda della ricerca del nuovo, piuttosto che su una visione di insieme della nuova struttura organizzativa. Questo ha generato, in un numero sempre crescente di casi, una situazione di frustrazione e malcontento legata al cambiamento perché può capitare che, nella realtà. non vengano sempre confermate le aspettative dei candidati. Gli stessi colloqui - spesso svolti da remoto e senza aver mai avuto contatti personali con i futuri responsabili - oppure la mancata possibilità di entrare in contatto con figure laterali rispetto al proprio ruolo o semplicemente di visitare personalmente la propria sede di lavoro hanno reso, da un lato semplice la valutazione del cambiamento, ma dall’altro hanno complicato l’on-boarding e la creazione della relazione nella nuova azienda.